Le immagini
Paolo Balmas su 'Disarmonia'
Tra il fotografo e l’immagine fotografica, si sa, c’è di mezzo la tecnica, ovvero una conoscenza più o meno profonda delle attrezzature disponibili e delle pratiche attuabili onde ottenere un risultato prefigurato o anche più semplicemente intuito.
Nella cosiddetta fotografia d’arte la tecnica è un puro strumento al servizio dell’espressione, in genere pienamente identificata con la bella immagine, nella fotografia analitica, almeno così come venne a definirsi nell’operato di alcuni maestri dello scorso decennio, la tecnica era invece semplice declinazione inessenziale di un’altra coincidenza, quella tra lo strumento in sé e la struttura concettuale che consente l’iscrizione della fotografia nell’universo dei sistemi semeiotici.
Al di la di queste due polarità estreme esiste però un’ulteriore possibilità, un terzo modo, forse epistemicamente disomogeneo rispetto agli altri due, ma anch’esso perfettamente plausibile, di concepire la tecnica: quello che consiste nel vedervi sì in un certo qual senso ancora uno strumento, ma non più un momento subalterno rispetto al fine “alto della realizzazione estetica intesa come tutto compiuto. E’ l’idea come compagna di strada come mezzo introiettato e oramai connaturato di presa sul mondo, come ausilio per vivere all’insegna dell’immagine il proprio rapporto con le cose e gli eventi. Non imprigionare la vita nella fotografia ma vivere anche attraverso la fotografia.
Nel caso di nove pannelli che Corinto Marianelli presenta in questa mostra l’idea di tecnica come compagna di strada esce allo scoperto e si fa arma trasparente usata con pacata e metodica consapevolezza per inseguire un fine squisitamente psicologo-esistenziale, quello dell’elaborazione del lutto.
Il “lutto” ovvero la perdita che il nostro fotografo, appunto da fotografo, si sforza in quest’occasione di elaborare è quello della rottura del proprio matrimonio, della separazione irrimediabile della donna amata e dalla casa in cui aveva vissuto con lei per oltre dieci anni. Una storia privata, simile ad infinite altre e che non dovrebbe interessare il pubblico dell’arte se non per i contenuti universali capace di veicolare una volta fattasi immagine. Qui invece scatta qualcosa una sorta di ribellione, di tentativo di cambiare le regole del gioco. Corinto Marianelli decide di non accettare il postulato estetico della bella forma, dell’espediente stilistico in cui riversare il proprio sentire per farne un sentire di tutti, e tenta un esperimento nuovo quello di esporre appunto un processo di elaborazione del lutto. Chi conosce la storia dell’arte di quest’ultimi anni arriccerà già un pò il naso e pronuncerà dentro di sé con sufficienza il nome di una corrente artistica in voga qualche anno fa: la “Narrative Art”. Niente di più inesatto, nella Narrativa Art l’immagine era accompagnata dalla scrittura a mo’ di didascalia o di connettivo tra più immagini ordinate in una sequenza ideale, mentre l’immagine stessa tendeva a perdere ogni connotato personale e a presentarsi come immagine anodina, immagine di un’immagine.
Corinto Mariannelli gioca esattamente la carta opposta espone la tecnica come dato esistenziale per creare un contatto immediato con il pubblico e immetterlo in una dimensione temporale assolutamente privata fatta di rimandi, ricordi, atmosfere e legami topologici con l’ambiente. Vuole insomma che il privato divenga comprensibile almeno come racconto per aprire il varco ad un’altro universo di esperienze, quello dell’agire fotografico inteso come agiro esistenziale. Si trova così ad inventare dei semplicissimi espedienti da far funzionare a mo’ di leggenda: la foto nella foto è il ricordo e si connette ad una precedente mostra sul tema del ritorno al privato (1981), le inquadrature di luoghi e oggetti rappresentami l’ambiente dal quale egli sta per distaccarsi con annesse tutte le sue trappole emotive che sempre si dissimulano nel sottobosco dell’abitudine, le foto numerate e datate automaticamente sono invece una registrazione cronologica regolare ed arbitraria del giorno in cui è avvenuto il distacco definitivo, il tutto sottolineato nei suoi snodi risultati a conti fatti più significativi, da una semplice cornice di colore attorno al fotogramma.
La forma del provino semplicemente ingrandito ed esposto così com’è diviene allora non più l’evidenziazione, concettuale di uno statuto tecnico ma l’offerta di una chiave di lettura non priva di un evidente valore metaforico, la metafora per cosi dire “progressiva” di un’archiviazione che tramite la presenza di alcuni fotogrammi non sviluppati ci parla in qualche modo anche del futuro, della vita che continua e continua ad essere inestricabilmente immagine e sentimento, senza un confine preciso tra privato ed universale.